Abbiamo iniziato a perdere (tutti) quando abbiamo iniziato (tutti) a confondere, per interessi economici, la cultura popolare con la munnezza (trash).
Cultura-Popolare: paradigma socio-culturale che indica l’insieme di idee, punti di vista, atteggiamenti, immagini e altri aspetti che hanno a che fare e che rientrano nel cosiddetto mainstream di una determinata antropologia culturale.
Quando era tutto ancora sotto controllo. La cultura nei format tv e quella soglia che non si doveva superare
La satira in maschera, ricordate Il bagaglino? Io ero bambino, per me è il ricordo di uno show televisivo con soubrette seminude, battute scontate, ed estremizzate caricature di politici che sullo sfondo avevano già quella che sarebbe stata, purtroppo, la reale società futura. Era il fondo. Doveva essere il fondo. Una certa soglia che non si doveva superare. Dei contenuti che, ad un certo punto, dovevano rientrare, ritirarsi e non svilupparsi.
Ne avevamo la possibilità: sugli altri canali c’erano format che, in maniera naturale, una “cultura popolare” la creavano, ed era intelligente perché era conseguenza di riconoscimenti verso modalità di comunicazione più genuine, dove l’improvvisazione riempiva la maggior parte del tempo dello spettacolo, dove le varie forme di arte venivano usate per arrivare al popolo sotto forma di intrattenimento. Venivano messe in scena, da una parte, la preparazione degli artisti, professionisti nei propri ambiti, e dall’altra parte le capacità comunicative delle persone che vi erano dietro quegli artisti, quei professionisti: avevamo Quelli della notte, ad esempio.
Ricordo che gli anni 2000 iniziarono con “L’ottavo nano”. Fare televisione, intrattenimento, era una professione insomma, vi erano professionisti che, con la loro bravura, sbeffeggiavano in maniera intelligente, pensata e lasciando pensare il pubblico, politici e fenomeni televisivi (Corrado Guzzanti con Tremonti e Educational Channel, resterà nella storia della TV).
Era tutto sotto controllo. C’erano dei format, c’erano degli autori, una regia, c’era la politica da sfondo e da bersaglio, c’era il business della pubblicità tradizionale che permetteva di sostenere i costi per la realizzazione di tutto, dove però i brand restavano esterni, non entravano in scena se non dichiarati messaggi promozionali; c’era poi la massa che dichiarava vincente o perdente un format che poteva alzare il suo potere contrattuale, o lo perdeva, a seconda dei risultati provenienti dai dati di ascolto (Audience).
L’illusione di un interessante esperimento socio-antropologico
Tutto è cambiato con quel bellissimo (si, per me resta bellissimo) esperimento del primo Grande Fratello. Un nuovo format senza tempi se non quelli delle dirette settimanali in studio. In realtà era una unica puntata lunga tre mesi di un qualcosa di cui non si sapeva cosa sarebbe stato. Per gli appassionati di comunicazione e per chi la osserva in ottica sociologica, credo che quella prima edizione fu jazz. Si studiavano due nuovi fenomeni sociali e sociologici: da un lato l’interpretazione della vita reale da parte di persone scaraventate in televisione, in un recinto, decise a vivere una sorta convivenza forzata con altre persone sino ad allora sconosciute; dall’altro lato la reazione della massa, quella che li osservava da casa, che guardava praticamente persone in cui si riconosceva, una massa che osservata se stessa ma in tv, guardando la tv.
Fu un esperimento vincente, a mio avviso, da tutte le parti. Gli autori avevano portato in Italia un format nuovo e interessante, gli sponsor che vi scommisero furono contenti dell’audience derivante dalla trasmissione, l’emittente fu contenta grazie alla soddisfazione degli sponsor. E da non sottovalutare, anzi, da riconoscere, la possibile decisione da parte dei protagonisti di quella edizione di poter decidere le sorti del proprio futuro. Il percorso professionale e le scelte di Pietro Taricone, personaggio clou di quell’annata, di restare lontano da un certo tipo di richiamo mediatico, ci faceva ben sperare.
Il cambio epocale: quando la massa decise di sfruttare lo show
I problemi iniziarono quando si perse il controllo: quando la massa, dalla seconda edizione del Grande Fratello, entrò come protagonista nelle scelte del format. Ai provini iniziarono a prender parte personaggi e non persone, o meglio, personaggi camuffati da persone, testimonial camuffati da persone: gente che, si vestiva con t-shirt con stampato il logo del brand del parente, persone che cantavano l’inedita canzone dell’amico. Le persone iniziarono, sapientemente e furbescamente, ad approfittare del media per lanciare messaggi nelle case delle persone come loro.
La reazione dall’esterno, fu che la massa non si immedesimava più nelle persone che avevano quel briciolo di purezza della prima edizione, ma iniziarono ad ambire a diventare personaggi e commercializzare la propria immagine, iniziarono a rendere remunerativa la propria partecipazione alla trasmissione prima ancora dell’inizio della trasmissione stessa. I mesi nella casa diventavano l’esecuzione di un business plan.
Gli autori, la produzione, gli sponsor, l’emittente, scegliendo quella strada, che era la più prolifera, scegliendo di vestire persone dei panni di personaggi e dando più risalto alla costruzione di personaggi piuttosto che al pensiero delle persone, furono gli apripista del caos che ancora purtroppo viviamo e che sempre più sta diventando il nuovo (mancante) equilibrio sociale tra reale e artificiale, tra bugia e verità, tra vero e falso. Furono gli anni deriva socio-culturale di un paese che ha iniziò a credere che fosse più semplice e soprattutto più redditizio apparire invece che essere.
L’equivoco sul termine popolare
L’errore più grosso fu, e continua ad essere purtroppo, pensare a queste dinamiche di creazione della popolarità come se fossero loro la conseguenza della cultura popolare derivata poi, e non viceversa. Si è andati svalutando entrambi i termini cultura e popolare. Non vi era e non c’è nulla di culturale in quello che si costruisce a tavolino per diventare mainstream; allo stesso modo, l’accezione di popolare più diffusa oggi, è sbagliata: oggi per popolare si intende qualcosa che riceve tanta audience. Popolare invece è qualcosa di già esistente e che scaturisce enorme interesse in maniera naturale. Si diventa popolari, non si nasce popolari.
Il figlio della coppia più seguita dei social, Ferragni e Fedez (I Ferragnez) non è “nato popolare” come tutti, banalmente, pensano. L’esposizione dei suoi genitori rende noto, famoso, il bimbo sin dalla nascita. Si tratta di notorietà e non di popolarità. Il successo di Chiara Ferragni scaturisce dalla naturalezza iniziale con cui lei mostrava la propria vita.
Si diventa popolari e non si nasce popolari.
Così doveva continuare ad essere.
Tutti noi, ad un certo punto, siamo stati, invece, attratti da questa becera, sbagliata, pericolosa, nuova ambizione dell’essere popolare, e abbiamo iniziato a concepire in maniera distorta la popolarità: le persone, senza arte né parte non diventavano più popolari in quanto attraenti per un proprio talento o una propria preparazione, ma solo in quanto capaci di essere presenti in luoghi che quotidianamente erano esposti ai riflettori (la casa del GF, Uomini e Donne).
La massa, quella stessa audience che attestava il successo della vita preconfezionata di quelle persone diventate personaggi, ha iniziato a credere di poter diventare famosa, nota, grazie al potere della visibilità scaturita da partecipazioni a programmi televisivi.
Ha iniziato a credere che potesse diventare un lavoro vivere. Ha iniziato a credere che, mostrando la propria vita, avrebbe potuto “fare soldi”.
Le persone hanno poi iniziato a sognare la scalata sociale, le ospitate, di instaurare relazioni con attori, cantanti, artisti, del resto erano personaggi dello spettacolo anche loro.
Non importava che questo sarebbe significato cambiare la propria natura, il proprio essere; non importava che sarebbe significato usare la propria vita, il proprio tempo, come merce di scambio da mettere sul piatto in un rapporto contrattuale con degli sponsor, non importava che quella vita, da quel momento, sarebbe stata vissuta in maniera artificiosa, ci si stava, forse per la prima volta, concentrando su come costruirsi un futuro. Lavorare non era più previsto. Bastava vivere mostrandosi. Vivere sotto i riflettori diventava lavorare. Il nullafacente con i riflettori puntati si sentiva bravo a fare qualcosa: a vivere.
E non si è più tornati indietro, anzi, si è capito che mostrandosi poi alla massa, impregnati di messaggi promozionali, confezionati dagli stessi sponsor, quella nuova notorietà avrebbe assunto un valore economico sempre più grande. Di lì questi nuovi personaggi iniziarono, nel vero senso della parola, la ricerca e l’acquisto della massa, dei followers.
Più avanti, visto il proliferarsi di persone che adottavano questo nuovo stile di vita, si ebbe l’esigenza di attestare anche la nuova professione strettamente dipendente: nasceva l’influencer. Le dinamiche legate al lavoro, allo scambio commerciale tra soldi e vita-immagine-tempo del protagonista, presero il nome di influencer marketing. Nacque l’aspetto commerciale della vita.
La conseguente deriva della politica: la nascita e il declino del M5S. Il fenomeno Salvini nasce dal Grande Fratello
Quelle dinamiche ebbero un indiscusso successo. La massa si riconosceva in quei nuovi personaggi creati ad arte. Allora quelle stesse dinamiche iniziarono ad essere adottate anche dalla politica che, si sa, ha come ambizione ultima quella di attrarre la massa per poi trasformarla da spettatore ad elettore. Allora prima si intraprese, con Berlusconi, la strada di portare in politica, in un contesto patriarcale, misogino, persone comuni, donne di bella presenza, che erano magari state capaci in precedenza di entrare nel mondo dello spettacolo, e disposte a mostrarsi e ad accostare la propria immagine a pensieri politici come ai messaggi promozionali preconfezionati; poi, considerando lo scetticismo, forse inaspettato, riscontrato dal pubblico verso personaggi prestati ad un ambito che sino a quel momento era visto come serioso e formale, un contesto dove l’elettorato, da un lato, sperava ancora timidamente nelle competenze reali dei politici, dall’altra sperava di poter essere destinatario di quelle dinamiche di nepotismo che avevano ancora la meglio. Insomma, gli spettatori-elettori rifiutarono quel certo tipo di nuovo uomo politico (che diventava donna in questo caso), perché non vi si riconosceva in quel contesto.
La politica però, col tempo, ha cambiato approccio, ma non ha mai smesso di osservare il fenomeno della massificazione dello spettacolo e della spettacolarizzazione della realtà, credendo di poter attingere insegnamenti utili ai propri scopi.
Il personaggio Salvini, ma prima ancora il Movimento cinque stelle, sono il frutto del nuovo approccio della politica a quella nuova accezione del termine popolare. Esperimento riuscito, purtroppo, tanto che sono identificati come populisti. Il punto è che si tratta un populismo nato da quel grave equivoco sul termine popolare che sta inquinando la società nei nostri tempi.
La massa così come prima ha pensato ed è riuscita a diventare protagonista dello spettacolo, è riuscita poi a diventare anche protagonista della politica mostrando nelle piazze, che fungevano da casa del GF, le ire di persone normali (come fossero i protagonisti del GF) che al grido di Vaffanculo attiravano sempre più persone che si rispecchiavano in loro perché vivevano quotidianamente le stesse motivazioni delle proteste (sentimenti esposti nella casa del GF).
Così come avviene nello spettacolo, però, anche nella politica, senza quel talento e quella preparazione necessaria, ci si ferma alla notorietà, alla fama, al successo di una stagione. Col M5S è nato un movimento politico, quindi, non da una genuina popolarità scaturita dalla visione di un leader carismatico e da un gruppo con una visione sui vari ambiti del sociale, ma da una azienda, una società a responsabilità limitata che è stata capace di sfruttare nel migliore dei modi le modalità della comunicazione dello spettacolo in un contesto politico. Il che è totalmente differente. E rischia, nel momento in cui il movimento poi dovrà diventare protagonista di quel contesto, di mostrare tutti i suoi limiti, così come sta avvenendo e così come avviene nello spettacolo quando un personaggio nato dal nulla, si ritrova protagonista, magari alla conduzione di un format televisivo.
Discorso a parte merita Salvini. Il quale ha studiato ancor più strategicamente quell’approccio e lo ha plasmato sulla sua figura politica, una figura quindi che ha delle competenze nell’ambito in cui si muove. Una strategia politica e psicologica che, sapientemente, ha nascosto dietro l’elefante della comunicazione politica.
Un approccio sicuramente più strategico: mostrarsi alla massa così come è la massa per dare alla massa, però, non l’idea che anch’essa potrà domani diventare protagonista della politica, bensì un punto di riferimento politico forte con cui rispecchiarsi, in cui rivedere le persone che siamo, a cui poter affidare la propria sicurezza e il proprio futuro, perché ossessionato dalle stesse paure della massa. Un capitano.
Come ne usciamo?
Le colpe più grosse di questo nostro momento storico politico e socio-antropologico sono di quei brand, di quei responsabili di quei brand (è bene identificarli professionalmente con nomi e cognomi), che hanno investito budget milionari in un certo tipo di prodotto televisivo pensando esclusivamente all’aspetto commerciale: quelli che hanno seguito la strada del “investo dove sono più visibile” e non “investo su cosa vale di più”. Quelli del “investo su chi mi fa vendere di più” e non “investo sul migliore”. Qualcuno replicherà che, commercialmente, il migliore è chi vende di più.
Culturalmente ci tocca sperare in una presa di coscienza, magari una presa di posizione, che parta dall’etica, dai valori, di quelle persone giuridiche, quelle imprese, quei grossi brand che investono nei media per diffondere i propri messaggi promozionali.
I brand dovrebbero iniziare, tutti, ad accostare la propria immagine e ad affidare i propri messaggi a strumenti, format, personaggi, che abbiano come fine ultimo quello di creare un prodotto editoriale sano che non confidi e non punti su contenuti subdoli e di dubbio spessore per accaparrarsi la più alta audience. Del resto, se nessuno investe nella munnezza la munnezza non riuscirà a trovare risorse per abbellirsi e ad attrarre spettatori.
Dall’altra parte ci tocca sperare in una presa di coscienza da parte di ognuno di noi, che sino ad oggi abbiamo guardato certi format e abbiamo contribuito al successo di certi personaggi, che siano politici o dello spettacolo. Una presa di coscienza che parta dall’ammissione di essere state vittime, da un lato, della nostra megalomania, che ci ha visti credere di riuscire a fare della nostra vita, per sempre, uno spettacolo commerciale che, invece, sarebbe durato per quel famoso quarto d’ora di notorietà; dall’altro lato ci ha visti vittime ingenue di una strategia politica aggressiva, non etica, sapientemente camuffata da una comunicazione che ha basato tutto sulle nostre paure.
La deriva è iniziata da lì: da quando hanno reso popolare la munnezza e reso munnezza l’accezione di popolare