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La nostalgia per i nomi dei bar e l’apatia che regna nel più bel ramo del settore caffè

Di il 12 Aprile 2022

Stavo per scrivere che quelli che lavorano nel settore caffè identificano i bar non con il proprio nome ma con la marca di caffè che questi servono. Poi ci ho pensato meglio e sarebbe stato riduttivo, molto riduttivo, in quanto tutti identifichiamo i bar con la marca del caffè che servono, e non soltanto noi operatori del settore che lo facciamo per deformazione.

Il nome del bar lo ricordiamo soltanto se questi effettivamente si presenta come un format particolare che va oltre la caffetteria tradizionale.

Per noi i bar sono: “quello ad angolo che tiene Kimbo”; “Il bar sul corso che tiene Carbonelli”; “il bar in piazza che tiene Illy”, ecc. ecc. ecc. Questa cosa è tanto vera che la stragrande maggioranza dei bar hanno dei nomi di merda: inglesismi, crasi improbabili, acronimi inimmaginabili, per non parlare dei loghi, che non è neanche necessario per un bar avere un logo, ma che si ostinano ad identificarlo con un banalissimo simbolo: la tazza di caffè fumante.

Fino a un ventennio fa i nomi dei bar portavano il cognome dei proprietari. Era bellissimo. In uno dei libri più belli che potete leggere sulla storia delle imprese “Mad in Italy” di Giampiero Cito e Antonio Paolo uno dei capitoli era titolato “Le grandi imprese sono cognomi”, è verissimo. E i bar sono grandi imprese. Di quelle imprese che non le fanno grandi soltanto i fatturati, ma le storie di vite che ci passano e ci crescono dentro. Poi è cambiato tutto. Oddio, alcuni di quei bar “storici” sono ancora lì, benedetti, con l’anima dei proprietari/fondatori perché sono ancora vivi loro. Ma ne vedremo, purtroppo, sempre meno. Da un lato perché le nuove generazioni non vogliono crescere in un’attività che hanno sempre visto come “vecchia”; dall’altro lato perché le nuove generazioni hanno la colpa di non appassionarsi alla creazione di un’impresa che abbia un’anima, ma si fanno infinocchiare solo dalle anime finte e luccicanti delle grandi imprese apatiche.

Un tempo c’erano i gestori dei bar, erano una sorta di manager ai quali il proprietario del bar affidava l’attività per farla crescere. Ora stanno scemando anche queste figure. Perché sta scemando la cultura di impresa. I proprietari dei bar non ragionano da imprenditori, e dei giovani più nessuno è attratto dal commercio puro che fermenta in maniera naturale (se sei bravo a gestirlo) nei bar.

Tra l’assortimento di un bar, di bibite ne troviamo di varie marche, pure quelle gasate con gusti simili, anche perché servono a tagliare gli alcolici e fare i cocktail; di birre altrettanto; di succhi di frutta uguale. Anche se andiamo sul cibo le proposte dolci e salate sono svariate, sia tra quelle artigianali che tra gli snack.

Il caffè, invece, è l’unico prodotto monopolista all’interno del locale. E badate bene, questa non è una critica, né una colpa, anzi. Questa consapevolezza riconosce e glorifica l’importanza della bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua e, soprattutto, la cultura del caffè espresso napoletano in Italia. Se in Italia abbiamo un prodotto che la fa voce grossa nel mercato, questo è il caffè. Gioca tutto dalla sua: le abitudini delle persone che lo consumano sia di corsa che comodamente e più volte al giorno; il fatto che la preparazione al bar è “veloce”, e per questo la scelta di un solo caffè rende tutto più funzionale; insomma svariati fattori fanno del caffè, fisiologicamente, un prodotto monopolista.

Questa consapevolezza comporta però, inevitabilmente, una sorta di gioco tra le parti tra il proprietario del bar e il fornitore, dove l’uno manovra i fili dell’altro e viceversa, ma in cui entrambi ritengono essere in un rapporto win-win con l’altro: il proprietario del bar, ormai consapevole di quanto vale per il fornitore, chiede a questi supporto per tante spese sull’allestimento del locale, oltre “ovviamente” alle attrezzature occorrenti per il consumo del caffè in ogni sua forma. Pena il cambio del fornitore. Il fornitore, da parte sua, forte del fatturato che gli genera il cliente, legandolo a sé con contratti pluriennali, lo accontenta brandizzandogli il locale col suo marchio ovunque, ma: sull’insegna innanzitutto, ma poi sul gazebo, sul portatovaglioli, sul porta zucchero, sulle tazze, sulle divise dei baristi e dei camerieri, sull’orologio a parete… ovunque.

Per questo non ricordiamo più il nome dei bar, non li conosciamo proprio i nomi dei bar. Il bar ha la sua localizzazione associata al brand di caffè che usa. È tutto appiattito. Anche i bar più belli, che sono belli eh, ma sono tutti uguali.

Mi piacerebbe ri-vedere la passione nella gestione dei bar. Ritrovare un’anima nei bar. Ognuna diversa, come sono diverse le persone che li gestiscono. I bar dove il caffè fa il caffè e le persone fanno il bar. E non venite a portarmi esempi dei bar storici di Torino, Firenze, ecc. Mi piacerebbe rivedere tutto ciò nelle nuove attività, nei progetti prima ancora che nelle mura. I bar sono imprese, e le imprese sono difficili. Le imprese con un’anima restano le più belle.

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